William Albright (1944-1998) - Orgelwerke - Angela Amodio

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Recensione a “The king of instruments” William Albright (1944-1998) - Orgelwerke – Angela Amodio

 

Per mettersi all’ascolto delle musiche un artista americano occorre dotarsi di categorie che non prevedono la coerenza, l’originalità, la novità e simili, tanto più se si tratta di musica per organo e di un musicista proveniente dagli ambienti accademici; è questo il caso dell’incisione di una scelta di musiche organistiche di William Albright da parte dell’organista italiana, naturalizzata austriaca, Angela Amodio

 

Non ci stupisce il dettato estetico di chi afferma “Preferisco la diversità disordinata alla noiosa unità”, o “La mia musica è generosa, eclettica”, dopo un Charles Ives o un Aaron Copland per arrivare fino a un Leonard Bernstein, i cui echi si sentono, eccome, dentro alla produzione più recente del nostro autore. Ma tant’è, il percorso compositivo di W. Albright ha passato in rassegna pressoché tutte le tendenze del novecento europeo, fin da quando, a partire dalle sue produzione post-ligetiane, ha espresso quel naufragio estremo dell’organo ridotto a suono puro, a materia informe che esprime solo sé stessa (Pneuma, Organbook III), dove il compositore scompare dietro all’enigma delle infinite possibilità esecutive e dove il compimento estetico è del tutto secondario se non addirittura scientemente tralasciato. 

 

L’organo diventa soggetto di esplorazione dei suoni, luogo di energia sonora ridotta allo stato primitivo, pratica digitale più o meno razionale, elemento per spettacoli sonori (The King of Intruments), pretesto per balletti virtuali (Flights of Fancy) [*], cercando di ribadire una natura e una funzione ormai persa o, se si vuole, tentando di individuare percorsi disperatamente inediti. È il ben noto disagio del compositore moderno, chiamato da una parte a dire qualcosa di personale e dall’altro a non ripetere il già detto, con il risultato che la sua ricerca arriva troppo spesso dove l’ascoltatore non coglie più i nessi e forse oggi non sente neppure più il bisogno di inseguire, dal momento che la musica deve pur avere un qualche grado di funzionalità e bellezza per non tradire sé stessa.

 

Proprio in questa ottica si comprende allora perché il meglio di questo c.d. è rappresentato da piccole miniature in cui viene fuori il personale divertimento del compositore, là dove l’americano fa l’americano, il musicista fa il musicista e non il pensatore, dove vi è un chiaro riferimento a una tradizione viva e a forme condivise, dove il gusto entra in gioco una buona volta, e dove non vi è il testamento ultimo dell’organo ma una disponibilità a dire qualcosa che arriva a portata di orecchio (Ragtime Lullaby, Shimmy, Alla Marcia, SweetSixteens). 

 

L’organista Angela Amodio ha scelto ottimamente una silloge di brani che illustrano la polivalenza multipolare dell’autore nella sua intera parabola compositiva; ha saputo esprimere grande duttilità, convinzione e preparazione esecutiva tanto nei brani dell’ex avanguardia che in quelli più misurati e giocosi, ha tratto suoni fantastici dagli strumenti Späth (Jesuitenkirche Wien, 2004 III/P/42) e Rieger (Missionhaus St. Gabriel Wien, 1982 II/P/24); esaustive le note esplicative del libretto in tre lingue (inglese, tedesco, italiano) per un c.d. in cui il compositore ne esce ritratto perfettamente in tutta la sua poliedricità.

 

Fausto CAPORALI 

 

[*] di questa composizione la sezione "Ragtime Lullabye" è ascoltabile qui in calce in esclusiva per gli utenti iscritti al presente sito internet